Cristiana Paternò/L’Unità

Cronaca di una sparizione. O della sopravvivenza attraverso un luogo-simbolo. Ma anche cronaca di un caso di normale censura «bancaria».
Pura coincidenza, ma proprio in questi giorni due documentari parlano di sinagoghe. In Italia e in Svizzera. Il film italiano, di Daniele Segre, si chiama Sinagoghe, ebrei del Piemonte, dura 53 minuti, ed è prodotto dalla Rai che dovrebbe mandarlo in onda si spera a breve dopo un'anteprima affollatissima a Torino domenica scorsa. Quello svizzero l'ha scritto, prodotto e realizzato Franz Rickenbach, si chiama Une Synagogue à la Campagne, dura 139 minuti, e avrà il suo debutto oggi alla Cineteca di Losanna per poi uscire anche nelle sale grazie a una piccola distribuzione kamikaze. Ma le affinità finiscono qui. Perché se Segre ci ha messo poco più di un anno per arrivare dall'idea al film finito – un'esigenza personale, per lui, ebreo torinese cresciuto dagli 11 anni all'ombra della sinagoga dove suo padre faceva lo shamash, il sagrestano – per Rickenbach ci sono voluti sette anni e una determinazione enorme. Il tutto in una Svizzera che il luogo comune vuole oasi neutrale nelle bufere della seconda guerra e asilo di perseguitati.
«Non avrei mai immaginato di ritrovarmi così solo, come se questo progetto non interessasse davvero a nessuno. Mi hanno spesso consigliato di rinunciare, ma è esattamente il genere di cosa che mi spinge a fare il contrario», dice Rickenbach. E così il cineasta svizzero, autore di svariati film tra cui forse il più noto è La Nuit de l'Eclusier del 1989, è andato avanti nell'indifferenza, anzi nell'ostilità dichiarata, delle banche del suo paese. Che, con un paio di eccezioni, gli hanno negato qualsiasi prestito dimostrando così quanto l'affaire della restituzione dei fondi ebraici pesi e infastidisca. Anche se il film, a dire del suo autore, non è certo una requisitoria ma una riflessione poetica sull'essenza della condizione umana.
Rickenbach, giustamente, è andato avanti per la sua strada. Convinto che sia assurdo non saper nulla dei «18.000 cittadini ebrei che vivono nel nostro paese». Ha trovato infine il sostegno di Arte e della tv della Svizzera romanda. Protestante, ha intuito il fascino dei vecchi ebrei di Delémont. Rimasti in sette – cinque, purtroppo, dopo la fine delle riprese – non bastano neppure a tenere aperta la sinagoga, perché per questo, secondo la tradizione, ci vogliono almeno dieci maschi adulti. Ma Robert Lévy e gli altri tengono almeno viva la memoria di una comunità che ha le sue radici nell'800. E Rickenbach spiega: «A 6 anni ho visto le prime immagini della seconda guerra mondiale, ora ne ho quasi 50 ma ancora non riesco a comprendere il più grande massacro del XX secolo».
Anche Daniele Segre si è trovato di fronte a una realtà in via d'estinzione. Molte delle dodici sinagoghe piemontesi sono ormai mete turistiche, poste sotto la tutela delle Belle Arti. «Comunità vive e ora estinte per colpa del nazismo», dice il regista. E aggiunge qualche notizia sulla storia degli ebrei piemontesi: «liberati» dallo Statuto Albertino, che già nel 1848 riconobbe loro i diritti civili. «A Roma, per esempio, per veder crollare le mura del ghetto bisognerà aspettare altri 40 anni. Ebreo di famiglia osservante – emigrata anni fa in Israele – Segre ammette di andare al tempio solo al Kippur. «Non so che ebreo sono e me lo chiedo. So che il film è un omaggio alla mia identità, ma anche un'esperienza inconsueta per, il mio cinema, un film in movimento attraverso le città di Saluzzo, Cuneo, Casale Monferrato, Cherasco, Torino… A Mondovì c'è la sinagoga più emozionante, piena di affreschi ma nascosta dentro il tessuto urbano, come un normale appartamento e quindi ancor più sorprendente.